La Crescente Ribellione contro Spotify: Artisti, Ascoltatori e il Futuro dello Streaming

A Oakland, in California, è nato un movimento dal basso chiamato Death to Spotify, promosso da musicisti indie, artisti e ascoltatori che mettono in discussione l’influenza della piattaforma sulla cultura musicale, sull’economia e sull’etica e più in generale, contro l’idea di un’industria musicale dominata da logiche algoritmiche e modelli economici centralizzati. Il movimento, chiamato provocatoriamente Death to Spotify (“Morte a Spotify”), nasce tra le mura della Bathers Library, dove per tutto il mese si sono tenuti incontri, talk e dibattiti su come “decentralizzare la scoperta, la produzione e l’ascolto della musica dalle economie capitalistiche”. Guidata da Stephanie Dukich e Manasa Karthikeyan — entrambe appassionate di suono, ma non musiciste — l’iniziativa è più una riflessione collettiva che un boicottaggio isolato. “Spotify è intrecciato al nostro modo di vivere la musica”, ha dichiarato Dukich. “Abbiamo pensato fosse importante capire insieme cosa significhi davvero staccarsene”. L’iniziativa, nata come una serie di piccoli talk locali, ha attirato ospiti da etichette indipendenti come Cherub Dream Records e Dandy Boy Records, stazioni come KEXP e collettivi come No Bias e Amor Digital. In pochi giorni è andata sold out, con richieste di replicarla a Barcellona, Bengaluru e Londra. Al centro della protesta c’è la denuncia contro il modello economico di Spotify, accusato di riconoscere agli artisti compensi irrisori e di promuovere una musica “algoritmica”, ovvero contenuti neutri, prevedibili e adatti a fare da sottofondo — la cosiddetta coffee shop music. La critica è stata approfondita dalla giornalista musicale Liz Pelly nel suo libro Mood Machine, in cui descrive Spotify come una “fabbrica di ascoltatori passivi e disinteressati”. Questa passività, secondo gli organizzatori di Death to Spotify, è il risultato diretto dell’ascolto tramite playlist automatiche e algoritmi personalizzati che limitano l’esplorazione musicale. Come ha dichiarato Karthikeyan: “Se lasciamo che gli algoritmi decidano cosa ascoltare, smettiamo di scoprire. La musica dovrebbe essere un atto di scoperta, non un suggerimento automatico”.

Un elemento che ha alimentato ulteriormente le polemiche è l’investimento del co-fondatore di Spotify, Daniel Ek, in Helsing, una società che sviluppa tecnologie di intelligenza artificiale per scopi militari. Ek ha destinato ben 600 milioni di euro all’azienda, una scelta che ha indignato molti artisti e spinto gruppi come Massive Attack, Deerhoof, Xiu Xiu, Wu Lyf e King Gizzard & the Lizard Wizard a rimuovere la loro musica dalla piattaforma. Will Anderson, frontman della band Hotline TNT, è stato diretto: “C’è uno 0% di possibilità che torneremo su Spotify. Il loro obiettivo è far sì che tu smetta di pensare a cosa stai ascoltando”. Alcuni artisti hanno già trovato percorsi alternativi: Hotline TNT ha venduto centinaia di copie del nuovo album Raspberry Moon attraverso Bandcamp e un live streaming su Twitch. Caroline Rose ha distribuito il suo Year of the Slug solo su vinile e Bandcamp, ispirata dal progetto di Cindy Lee pubblicato su YouTube e tramite file sharing. “È triste mettere il proprio cuore in un disco e poi regalarlo online”, ha detto Rose. Non si tratta solo di una fuga, ma di una ricerca di modelli sostenibili. Gli artisti stanno esplorando nuove vie per connettersi direttamente con i fan, evitando le piattaforme che considerano dannose per il valore della musica. Dietro le scelte individuali c’è però una spinta organizzata: l’Union of Musicians and Allied Workers (UMAW), nata durante la pandemia per dare voce ai musicisti precari. Joey DeFrancesco, cofondatore del gruppo, sottolinea che le proteste isolate hanno poco impatto: “Boicottare da soli serve a poco. Ma insieme possiamo cambiare le regole”. UMAW ha già ottenuto risultati concreti, come la pressione sul festival SXSW per eliminare le sponsorizzazioni di esercito e industrie belliche, e la proposta di legge Living Wages for Musicians Act, presentata dalla deputata Rashida Tlaib per regolare i pagamenti delle piattaforme agli artisti.

Nel frattempo, Spotify continua a crescere. Con oltre 696 milioni di utenti attivi al mese, di cui circa 268 milioni pagano l’abbonamento premium, il servizio è il leader globale dello streaming. Dopo anni di crescita a basso costo, nel 2024 ha registrato i primi profitti e ha annunciato aumenti di prezzo, promettendo nuove funzionalità, tra cui audio lossless e strumenti per i superfans. Tuttavia, la dipendenza degli utenti è anche psicologica: le playlist personalizzate, le funzioni sociali come Spotify Wrapped e la vastità del catalogo rendono il passaggio ad altre piattaforme difficile, nonostante l’esistenza di alternative valide come Apple Music, Amazon Music, Tidal e YouTube Music. App come Free Your Music, Soundiiz o SongShift permettono oggi di trasferire le playlist altrove, ma il problema non è solo tecnico: è culturale. Come ricordano Dukich e Karthikeyan, il fine non è “distruggere” Spotify, ma creare consapevolezza. “Pensiamo che ognuno debba riflettere su come ascolta musica”, afferma Karthikeyan. “Se ci affidiamo solo agli algoritmi, la cultura musicale si appiattisce. La musica deve tornare a essere un atto di esplorazione, non un prodotto preconfezionato.” Il movimento Death to Spotify non è (solo) una protesta contro una piattaforma, ma una proposta per reimmaginare il nostro rapporto con la musica in un’epoca dominata dalla comodità e dall’automazione. Una sfida che parte da Oakland, ma parla al mondo intero. In questo contesto, diventa sempre più importante sostenere e ascoltare le radio libere, che spesso promuovono generi musicali, artisti e comunità escluse dai circuiti mainstream. Queste realtà, spesso indipendenti e autofinanziate, offrono un’alternativa viva e curata all’ascolto impersonale degli algoritmi, valorizzando la scoperta musicale e dando spazio a voci marginalizzate dal mercato globale.

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